Esserci, o non esserci, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella schiena soffrire
i colpi di vento e i bordi dell’oltraggiosa fortuna
o prendere la barca contro un mare di avversari
e, contrastandoli, porre loro fine? Poltrire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
alla nostra storia di velisti e alle mille sconfitte naturali
di cui è erede la pigrizia: è una conclusione
da desiderarsi penosamente.
Poltrire, dormire.
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno da pippa quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso la muta
deve farci riflettere. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga.
Perché chi sopporterebbe le scuffie e gli scherni del tempo,
il torto dell’avversario, la contumelia del Campione superbo,
gli spasimi del prodiere disprezzato, il ritardo della partenza,
l’insolenza degli ufficiali di regata, e il disprezzo
che il merito regatante riceve dagli indegni,
quando egli stesso potrebbe darsi quietanza
con un semplice “rinuncio”?
Chi porterebbe fardelli,
grugnendo e sudando sovrappeso in una muta odorosa,
se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la regata,
il paese inesplorato dalla cui frontiera
nessun velista fa ritorno, sconcerta la volontà
e ci fa sopportare la Classe che abbiamo
piuttosto che accorrere verso altre che ci sono ignote?
Così la coscienza ci rende tutti codardi,
e così il colore naturale del Fireball
è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e regate di grande livello e prestigio
per questa ragione deviano dal loro corso
e perdiamo il gusto della partecipazione.